lunedì 14 dicembre 2020

Io sono un ciabattaro

Ho letto in questi giorni la notizia del gruppo di escursionisti "dispersi" e recuperati dal Soccorso alpino sul sentiero natura ai Piani d'Erna, sopra Lecco e ho visto le reazioni indignate con cui molti appassionati di montagna hanno commentato la notizia.

Non so voi, cari amici escursionisti e alpinisti, ma io ho iniziato così: perdendomi ai Piani d'Erna (più o meno).

Non sono nato imparato e la mia esperienza in montagna l'ho maturata (e continuo a maturarla) anche in questo modo: facendo errori, fortunatamente sempre assistito dalla buona stella.

Faccio i miei corsi, cerco di rubare il "mestiere" a chi ne sa più di me, ma poi arriva sempre il momento in cui chiudo il libretto delle istruzioni e mi metto in gioco. E ogni volta commetto errori.

Imparo più da quegli errori che da tutti i corsi e i buoni consigli. Oggi sul Sentiero natura dei Piani d'Erna non mi perderei più. Forse...

Spero che ai ciabattari come quelli che si sono persi ai Piani d'Erna (e come me) gli uomini del Soccorso alpino facciano una lavata di testa di quelle che ti ricordi per tutta la vitta. Di quelle che ti vergogni come una biscia, ma poi impari.

Le multe invocate da tanti, i divieti, i patentini e l'accompagnamento obbligatorio da parte degli esperti qualificati sono sciocchezze inutili e dannose che mi fanno venire l'orticaria al solo pensiero.

Certo, rispetto a qualche decennio fa, con tutte le fonti di informazione e le occasioni di formazione che ci sono oggi, bisogna essere proprio un po' tordi per commettere certi errori.

Però vorrei soffermarmi un attimo a guardare quello che è accaduto: un gruppo di escursionisti si è perso sul sentiero e ha sforato i tempi previsti per l'escursione, restando in giro fino all'arrivo del buio.

Alzi la mano chi non si è mai trovato in questa situazione.

Chiedo ancora: quando vi è capitato, cosa avete fatto?

Io, come tantissimi altri, me la sono smazzata da solo. Non è una cosa che dipende dall'essere più bravi, più spericolati o più coraggiosi: è una questione di vecchiaia.

Chi ha cominciato a ravanare in giro per le montagne prima dei cellulari e di internet se sbagliava sentiero non aveva altra opzione che ritrovarlo da solo, facendo tutta la fatica in più e perdendo tutto il tempo che serviva per tornare sulla retta via.

Mentre si grattava da solo questa rogna imparava anche che la rogna è una cosa brutta e fastidiosa, molto pericolosa pure, ma non necessariamente mortale.

Oggi abbiamo a disposizione una mole enorme di dettagliate informazioni, non solo prima dell'escursione, ma anche durante. Abbiamo la possibilità di restare in qualche modo sempre connessi con il mondo, disponiamo quasi sempre di una qualche "corda di sicurezza" alla quale aggrapparci per venire fuori da eventuali guai. Tutte cose molto utili, delle quali, personalmente, trovo assolutamente opportuno approfittare.

Tutto questo ci costruisce attorno un guscio di certezze e di sicurezze impensabile fino a qualche decennio fa. Oggi abbiamo la possibilità di andare là fuori pur rimanendo sempre all'interno di una sorta di zona comfort.

Sappiamo tutto (o quasi): siamo istruiti, preparati, formati, informati e connessi. Ma, di cosa possa accadere quando il guscio si incrina, siamo forse molto meno consapevoli di quanto lo eravamo un tempo.

Per chi è abituato a stare all'interno del confortevole e ben conosciuto guscio dell'informazione e della competenza l'ignoto e l'imprevisto assumono sempre e comunque fattezze mostruose. L'errore, qualsiasi errore, viene percepito come potenzialmente letale e irreparabile.

Da vecchio ciabattaro quale sono non mi stupisco del fatto che i ciabattari come me si caccino ogni tanto nei guai e che affrontino la montagna "senza le adeguate attrezzature e conoscenze".

Me li ricordo ancora i passaggini del Canalone Porta saliti con i jeans stretti da metallaro che facevano tanto figo negli Anni 80, oppure la Segnantini sotto al temporale con addosso solo il maglione di lana fatto a maglia dalla mamma e sopra il Chivei di carta velina...

Quello che mi colpisce (e non mi riferisco ai soccorsi sul Sentiero natura, della cui vicenda so troppo poco per esprimere un giudizio) è il fatto che tante richieste di intervento del Soccorso riguardino imprevisti ed errori che sono sì fastidiosi, ma non espongono ad un immediato pericolo grave o letale.

I jeans da metallaro ti impediscono i movimenti, ma, una volta che dallo sforzo si sono strappati sul sedere, puoi di nuovo salire con una certa agilità e alla gita successiva ci pensi due volte prima di usarli.

Il Chiuei di carta velina sotto al temporale è facile che ti si sciolga addosso, ma d'estate in Grigna, una volta che sopravvivi ai fulmini, poi torna il sole e ti asciughi, oppure ti tiri fuori rapidamente dalle rogne e in un paio d'ore sei di nuovo giù ai Resinelli.

Se stai camminando su un sentiero e ti accorgi di non avere preso la borraccia patisci una sete bestia, ma difficilmente ti troveranno lì mummificato come Tutankhamon.

Se ti capita di bivaccare a luglio senza attrezzatura su un itinerario di media montagna, batti i denti tutta notte, ma non devi per forza morire di ipotermia.

Non credo sia una questione di "indegnità morale". Non mi pare plausibile che in giro ci siano persone che vanno in montagna pensando: "Vado su alla cavolo, poi se mi trovo a disagio mi faccio venire a prendere dal Soccorso". Sono convinto che chi richiede l'intervento lo faccia sempre ritenendo di essere in una situazione di grave emergenza, nella quale pensa di non avere altre vie d'uscita e che la propria vita sia in reale pericolo.

Andare in montagna, andare là fuori, è da sempre un gioco d'equilibrio fra la sicurezza - data dalle conoscenze, dall'esperienza e dal supporto tecnologico - e l'esposizione all'ignoto e al pericolo. Minore è la possibilità di portare con sé là fuori questo guscio di sicurezza, maggiori sono le possibilità, la disponibilità e la confidenza nel confrontarsi con l'ignoto e nel correre dei rischi.

I ciabattari (e anche i grandi alpinisti) che hanno fatto il loro apprendistato fra le montagne ai tempi in cui si andava alla sperandio, hanno avuto la scabrosa opportunità di questa esposizione sin dall'inizio della loro frequentazione dell'ambiente outdoor. Non c'erano per loro altre possibilità: l'unico modo per imparare a nuotare e era buttarsi nell'acqua alta.

Oggi che il nostro guscio di competenze, informazioni e attrezzature è così smart e mobile che (per fortuna!) ce lo possiamo portare appresso ovunque, anche nelle situazioni e nei luoghi più selvaggi, quella che rischia di essere carente è proprio l'esperienza dell'acqua alta, quella che ti consente di sperimentare la differenza fra le situazioni in cui c'è forse solo da ridere ("Annego, annego!" - "Ma metti giù i piedi, pirla!") e quelle davvero serie.

Oggi sarebbe da idioti pretendere di ignorare tutto il nostro apparato tecnologico e conoscitivo, invocando il ritorno ad una supposta età dell'oro dello "sperandio", ma forse il vero percorso di crescita su cui dovremmo lavorare per sviluppare una frequentazione più consapevole dell'ambiente outdoor (e non solo), non passa dalla sola acquisizione di nozioni e competenze e dall'adozione di attrezzature adeguate, ma anche dallo sviluppo di in una nuova "pedagogia del rischio".

Quando si rotola in giro per il mondo ben protetti all'interno del proprio uovo-zona comfort è importante capire cosa ci si può aspettare nel momento in cui il guscio si incrina, soprattutto per quei Calimeri che sentono il bisogno di spingersi là fuori, dove ogni tanto può capitare di fare la frittata.

lunedì 24 agosto 2020

I Ragni di Lecco - Una storia per immagini

 


I RAGNI DI LECCO

Una storia per immagini

di Serafino Ripamonti


La lunga storia di un gruppo di uomini uniti da un comune entusiasmo irrefrenabile per la montagna e dalla volontà di trasmettere l’esperienza e le conoscenze acquisite alle nuove generazioni.

Una tradizione e una passione che consentono ai Ragni di oggi di scalare le montagne di ogni angolo della terra stando ben saldi sulle spalle di coloro che li hanno preceduti.


I Ragni di Lecco sono il più antico e prestigioso gruppo italiano di scalatori. Il celebre maglione rosso con lo stemma del ragno a sette zampe è legato alle salite più difficili sulle montagne di tutto il mondo: dalle pareti alpine alle tempestose cime patagoniche, fino alle altissime quote himalayane. I nomi più celebri sono quelli di Riccardo Cassin, Carlo Mauri, Casimiro Ferrari e di altri che hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell’alpinismo e dell’avventura.

In questo volume illustrato si intrecciano le storie quotidiane d’amicizia e passione per la montagna e le imprese storiche, a partire dal 1946 fino ai giorni nostri, con le scalate di Matteo Della Bordella e di tanti giovani di oggi che praticano l’alpinismo ai massimi livelli, aggiungendo nuove pagine alla storia del gruppo, e che conservano uno speciale gusto per l’avventura e un pizzico di romanticismo.


Serafino Ripamonti (Merate, 1972) si occupa di giornalismo e comunicazione nel settore degli sport di montagna e del turismo outdoor, collaborando, tra gli altri, con Montagna.tv, TREKKING&Outdoor, Runner's World. Entra nei Ragni della Grignetta nel 2001 e prende parte alla spedizione alpinistica K2-2004, organizzata in occasione dei cinquant'anni dalla prima salita del K2.

È inoltre curatore dei contenuti storici e scientifici dell'Osservatorio Alpinistico Lecchese, il museo multimediale che il Comune di Lecco ha creato nel 2016 per promuovere la tradizione alpinistica del territorio.


Rizzoli

pp. 256 – 24,90 €

in vendita dal 23 giugno 2020

lunedì 29 ottobre 2018

Il testo della conduzione della serata "Lecco Verticale - Le rocce sui tetti" - 21 giugno 2018




Ecco il testo che ho preparato per la conduzione della serata del 21 giugno 2018 in Piazza Garibaldi a Lecco, dedicata alla presentazione del film "Lecco Verticale - Le rocce sui tetti".
Penso possa essere una traccia utile per chi viene a scalare fra le falesie lecchesi e volesse saperne un po' di più sulle origini e la storia di questo "giardino di roccia".

CAPITOLO DI UNA STORIA SPECIALE
Quella che vi racconteremo questa sera è una storia molto speciale. Anzi è un capitolo, uno dei più recenti e affascinanti di una storia speciale, forse unica in Italia se non addirittura in Europa.
È la storia di una città divenuta una capitale dell’alpinismo, pur non essendo una città di montagna.
Lecco non è Cortina d’Ampezzo, non è Courmayeur.
MANCHESTER D’ITALIA
Se proprio la si dovesse paragonare a un altra città la si potrebbe accostare a Manchester.
Per gran pare del 900 l’hanno chiamata proprio così: la Manchester d’Italia, perché economia era legata alle fabbriche e alla lavorazione del ferro.
Eppure montagne non sono lontane da questa città.
NATO IN SALITA E ROCCE SUI TETTI
Chi nasce qui, come scriveva Carlo Mauri, uno dei rappresentanti più illustri della tradizione alpinistica lecchese, chi nasce qui, nasce in salita.
Le rocce sui tetti”, il titolo del film che stiamo per vedere, dice già tutto.
Lo sappiamo bene: allontanandosi dal lago il terreno diventa sempre più ripido e, appena finisce la città, cominciano le pareti di roccia.
CONFIDENZA CON LE ROCCE
I lecchesi con queste pareti hanno sempre avuto una confidenza speciale, insolita per dei cittadini. Per diverse generazioni queste rocce sono state una risorsa che consentiva di integrare il salario della fabbrica. Ci si andava fin da piccoli per sfalciare il fieno magro o per cercare i nidi del passero solitario, un uccellino un tempo molto ricercato per le sue qualità canore, e ben pagato, facendo così l’abitudine all’altezza e imparando a muoversi in equilibrio precario.
SULLE ORCCE COME OPERAI
Quando poi le rocce hanno cominciato ad affrontarle come alpinisti, i Lecchesi ci sono andati con il fisico forgiato dal duro lavoro della fabbrica, con la competenza di chi sa costruire gli strumenti di cui ha bisogno lavorando il ferro per forgiare attrezzi e chiodi adatti alle più diverse situazioni, e con l’intelligenza pragmatica di chi, anche quando si dedica alle proprie passioni e ai propri sogni, è abituato a ragionare in termini di problemi da risolvere e di soluzioni pratiche per venirne a capo nel modo migliore possibile.
DA QUI ALLE GRANDI MONTAGNE
Ecco, tutto è cominciato da qui da questo contesto sociale ed economico, da queste rocce sopra i tetti e poi è proseguito sulle montagne più belle e più difficili di tutto il mondo.
ALTRA FACCIA: MONTAGNE E VICINANZA ALLE CITTA’
Però la storia raccontata così non è tutta la storia. La storia dell’alpinismo lecchese non appartiene solo ai lecchesi, perché essa è anche storia dell’alpinismo sulle montagne lecchesi.
Queste montagne, questi paracarri di roccia, come a volte vengono scherzosamente chiamati, non hanno la grandiosità del Monte Bianco o l’immensità delle pareti dolomitiche, ma hanno la vicinanza, la vicinanza non solo a Lecco, ma anche agli altri grandi centri urbani della pianura.
IL TURISMO POPOLARE
Cosa che ne ha fatto, fin dalla fine dell’800, una meta turistica straordinariamente frequentata.
Il turismo montano, il turismo outdoor, in senso moderno e popolare, probabilmente è nato proprio qui. Con l’avvento della civiltà industriale le classi popolari, che affrontavano le condizioni di vita durissime della fabbrica, ma che, forse per la prima volta nella storia, avevano a disposizione del tempo libero, trovavano fra queste montagne un luogo di svago e ricreazione a portata di mano e di portafogli.
Insomma che la classe operaia potesse andare in paradiso era un’ipotesi, ma che andasse in Grigna era ed è una certezza.
LUOGO DI INCONTRO E CONFRONTO DEGLI ALPINISTI
Ovviamente quello che valeva per gli escursionisti in generale, valeva anche per gli scalatori: se si guarda alla storia alpinistica delle montagne lecchesi ci si accorge che qui si sono sempre incontrati e confrontati gruppi e personaggi provenienti dai luoghi più diversi della Lombardia e oltre, molti dei quali hanno fatto la storia dell’alpinismo italiano e internazionale.
LA CULTURA DELL’ALPINISMO LECCHESE E’ FATTA DI TUTTO CIO’
Ecco, la tradizione, anzi la cultura dell’alpinismo che appartiene all’identità lecchese è fatta di tutte queste cose.

Presentazione Osservatorio, ModiSCA e Villa Gerosa
LUOGHI PER CONSERVARE E PROMUOVERE L’ALPINISMO
E’ importante dire che in questi ultimi anni, proprio grazie all’impegno degli enti locali come il Comune di Lecco e la Comunità Montana Lario Orientale Valle San Martino e Regione Lombardia sono stati creati luoghi dedicati alla conservazione e alla promozione di questa cultura.
OSSERVATORIO
Uno di questi si trova proprio a poca distanza da noi, nel Palazzo delle Paure, ed è Osservatorio Alpinistico Lecchese, un percorso di visita che, attraverso diversi strumenti e postazioni multimediali, introduce alla storia e alla tradizione dell’alpinismo lecchese e ne mette in evidenza proprio lo stretto rapporto con il contesto economico, culturale e paesaggistico del territorio.
VILLA GEROSA
L’altro è la Casa Museo di Villa Gerosa, nel Parco del Valentino ai Piani dei Resinelli, ai piedi della Grignetta, uno dei luoghi più simbolici di questa storia. Il percorso di visita di Villa Gerosa in qualche modo si interfaccia e integra i contenuti dell’Osservatorio, perché accanto alla sala dedicata all’alpinismo si sofferma sugli aspetti dell’ambiente, della storia umana, della fauna e della flora, offrendo ai turisti delle nostre montagne stimoli e strumenti per comprendere e apprezzare ancor di più i lughi che stanno visitando.
MODISCA
Strumento indispensabile per la realizzazione di queste due strutture è stato il progetto ModiSCA, ideato da Daniele Chiappa, uno degli esponenti di spicco dell’alpinismo lecchese, e portato avanti dalla Comunità Montagna Lario Orientale e Valle San Martino.
Si tratta di una straordinaria raccolta di fotografici e filmati, messi a disposizione dagli stessi alpinisti e dalle associazioni di montagna del territorio, per essere catalogati e digitalizzati.
Sono circa 5000 immagini fotografiche, 30 filmati storici e migliaia di scansioni da libri e riviste.
MODISCA SU SITO OSSERVATORIO
Un patrimonio immenso che, grazie alla sinergia fra Comune di Lecco e Comunità Montana, verrà progressivamente caricato sul sito dell’Osservatorio Alpinistico Lecchese per essere facilmente consultabile da ricercatori e appassionati.

Presentazione progetto falesie
Tornando a questo punto alla nostra storia facciamo un po’ un balzo in avanti nel tempo per arrivare finalmente al capitolo cui è dedicato il film che stiamo per vedere.
CAMBIAMENTI SOCIALI ARRIVANO IN ALPINISMO
Siamo sul finire degli anni 70 e il vento dei cambiamenti che negli anni precedenti ha investito la società arriva anche nell’alpinismo.
CONDOR
La prime avanguardie di questo cambiamento sono dei ragazzini, quasi dei bambini. Sono i giovanissimi scalatori del Gruppo Condor, che, al seguito di Don Agostino Butturini, il loro educatore al Collegio Volta di Lecco, rivolgono per primi l’attenzione a quelle piccole pareti di fondo valle, alte magari anche solo pochi metri, che gli alpinisti e l’alpinismo con la A maiuscola non avevano mai considerato.
BALLERINI
Ma questa è appunto solo un’avvisaglia della rivoluzione imminente, che si presenta con il fisico da atleta e la grinta ribelle del giovane Marco Ballerini.
E’ lui che porta a Lecco le nuove idee che vengono da luoghi come le Gole del Verdon, in Francia, dove l’arrampicata si sta evolvendo e reinventando.
SALIRE SOLO CON MANI E PIEDI
E’ lui che sovverte tutte le regole, calandosi dall’alto e bucando la roccia per piantare dei chiodi nei punti dove questa è più compatta, per potersi proteggere e poi salire dal basso, usando solo mani e piedi per progredire sugli appigli.
L’obiettivo non è più arrivare a una vetta e neppure semplicemente salire. L’obiettivo è farlo in questo stile “pulito” e andare alla ricerca di passaggi sempre più difficili. Questo è lo spirito e queste sono le regole di quella che oggi viene chiamata arrampicata sportiva.
ALIPPI E LA DIFFICOLTA’ - RONCHI FORMENTI E IL GIARDINO DI ROCCIA
Sulla strada tracciata da Marco si muovono negli anni ottanta tanti altri giovani. Alcuni di loro come Stefano Alippi, porteranno la ricerca della difficoltà a livelli sempre più elevati, altri come, Alessandro Ronchi e Delfino Formenti, si dedicheranno a un opera instancabile di chiodatura di migliaia di nuove vie e nuove falesie, dando forma a quello straordinario “giardino di roccia” che è oggi il comprensorio lecchese.
LECCO CENTRO INTERNAZIONALE DI ARRAMPICATA
La vastità e la qualità degli itinerari disponibili, la bellezza dell’ambiente naturale e dei paesaggi, nonché la storia e la tradizione alpinistica del nostro territorio sono le motivazioni che dagli anni 80 a oggi hanno reso il comprensorio lecchese uno dei più importanti centri italiani di arrampicata sportiva, meta, ad ogni fine settimana di migliaia di appassionati.
PROGETTO FALESIE
Non è un caso che proprio qui sia nato il Progetto di Manutenzione Straordinaria delle Falesie, promosso da Regione Lombardia Assessorato allo Sport ed alle Politiche Giovanili, con la partecipazione della Comunità Montana Lario Orientale Valle San Martino e Comunità Montana Valsassina Valvarrone Val d’Esino e Riviera, quali soggetti attuatori degli interventi, del Collegio Regionale Guide Alpine Lombardia e del Comune di Lecco, Provincia di Lecco e Camera di Commercio di Lecco.
L’ENTE SI PRENDE CURA DEL PATRIMONIO
Il progetto rappresenta uno dei primi esempi in Lombardia di progetto col quale l’ente pubblico riconosce il valore del terreno naturale dell’arrampicata come patrimonio culturale e turistico e sportivo e di esso si prende cura con un imponente attività di ripristino, miglioria delle strutture già esistenti.
Nei mesi scorsi è stata portata a termine una prima operazione di mnutenzione straordinaria che ha coinvolto nove falesie (alcune di queste tra le più note e frequentate del territorio) e ha visto la riattrezzatura di circa 700 la sistemazione dei sentieri di accesso, lo sfalcio della vegetazione, il disgaggio delle rocce pericolanti.
Il tutto in un rapporto di stretta interazione con i chiodatori che quelle falesie le avevano realizzate.

Introduzione film
Dopo tutte queste parole è tempo di passare all’azione e di lasciarci coinvolgere nel mondo verticale di cui tanto abbiamo parlato.
Diamo dunque spazio al film “Lecco Vertical – le rocce sopra i tetti” che, attraverso le splendide immagini girate dal regista Klaus dell’Orto, le interviste ai protagonisti e il soggetto scritto da Pietro Corti, racconta l’evoluzione dell’arrampicata sportiva nel nostro territorio e vuole essere un omaggio alla bellezza di questo “giardino di roccia” e a tutti coloro che, con passione e generosità, hanno contributo a dargli forma.

lunedì 23 aprile 2018

Nel nome del pane


Questo scritto partecipa al Blogger Contest 2018 del portale Altitudini.it

Premessa (forse) indispensabile:
Scrissi le righe che seguono subito dopo una corsa a Calco e molti anni dopo le scorribande di quando ero bambino.
Facendo lo slalom gli ultimi poderi agricoli e i terreni lottizzati a villette, scoprii che i vecchi sentieri di campagna erano per lo più scomparsi: chiusi o inglobati dalle recinzioni delle proprietà private.
Perché tanta ostinazione nel cancellare questi innocui passaggi, quale nemico tanto temibile sarebbe mai potuto arrivare da quei viottoli sgangherati?
Perché poi quell’omertà collettiva, dove tutti sanno che sono pubbliche servitù di passo ad essere violate e, per ogni sentiero chiuso, ciascuno sa di essere offeso nel proprio diritto e di perdere un poco della propria libertà di movimento. Eppure nessuno alza una voce di protesta.
Questi viottoli scomparsi sono i miei sentieri neri. La loro è un'assenza che parla.
Racconta il lato oscuro di quella “cultura del pane” che ha dato ai miei genitori un futuro da costruire e alla mia generazione un benessere da godere.
Il lavoro come riscossa sociale, il lavoro come dignità personale, l’orgoglio del fare, la bellezza del fare bene. Ma anche il lavoro prima di tutto: il lavoro sopra a tutto e a tutti.
Ecco, questo sussurra l’assenza dei sentieri scomparsi e volentieri dimenticati: che pane è quello pagato con la perdita dell’identità, col tradimento della terra e della dignità degli altri? Che pane è quello che riempie le tasche ma non nutre la vita?


Nel nome del pane
Chiudono i sentieri, i sentieri dove per generazioni hanno camminato loro, i loro padri e le loro madri.
Perché hanno così timore di quell’esigua striscia di terra?
Chissà, forse hanno paura che la morte arrivi a prenderli a piedi, battendo nella notte le pietre del selciato con quegli stessi zoccoli di legno che un tempo hanno indossato loro, o i loro padri e le loro madri: toc toc, toc toc, toc toc…
Forse hanno paura perché loro gli zoccoli non li indossano più e non se li possono cavare per prenderli in mano e volare via, a piedi nudi, più veloci dei rampini dei vecchi contadini cui da piccoli rubavano le ciliegie, più veloci della falce della morte... Che poi, a pensarci bene, non sarebbe neppure una brutta morte.
Forse hanno paura che siano i ladri ad arrivare a piedi… e anche quelli, in fondo, non sarebbero poi dei brutti ladri.
Chiudono i sentieri nel nome del pane.
Nel nome del pane fanno scempio delle cose belle, chiamandole inutili, come se queste non fossero, una per una, “parola che esce dalla bocca di Dio”.
Chiudono i sentieri, tagliano le arterie del ricordo e della leggenda e poi si dolgono che i loro figli non hanno più ideali, che non rispettano il sacro!
Ma non si ricordano che è da lì che si arriva nel bosco di Giovannino Senza Paura, poi al Sasso della Gibiana e, se uno ha coraggio abbastanza, ancora più in fondo, fino nel cuore del Mistero?

lunedì 29 gennaio 2018

Le scuole del deserto


(Articolo scritto dopo il viaggio in Niger del 2004)

Aman iman, l’acqua è vita, dicono i tuareg.
Difficile pensarla in altro modo mentre, all’ombra di un grande masso, ci laviamo ad una fonte limpidissima. Attorno piante fiorite e macchie di menta e capelvenere. Un miraggio, dopo giorni di deserto e acace spinose.
Se fosse tutto così, il territorio dei monti Bagzan sarebbe un paradiso.
Invece non è molto differente dal resto dell’Air: una spianata di rocce nere e sabbia, piantata nel mezzo del Niger, cuore arido dell’Africa.
L’unica differenza è che qui siamo a mille e cinquecento metri di quota, su un altopiano sorretto da una cerchia di pareti che si alzano improvvise nel deserto.
Fra queste montagne vivono quattromila persone, disseminate in una manciata di villaggi isolati dal resto del mondo.

I contadini del deserto
Non ci sono strade sui Bagzan, solo sentieri battuti ogni giorno da decine di piccole carovane. Asini e uomini scendono verso il piano, portando quei prodotti che qui crescono un po’ meno a fatica che altrove. Tonnellate d’aglio e cipolle procedono a dorso d’animale verso il villaggio di Tabelot e da lì, sulle piste battute dai camion, ai mercati di Agadez, la seconda città del Niger.
Sono i tuareg a coltivare questa terra assetata. I cambiamenti storici ed economici hanno ormai trasformato i “signori del deserto”, un tempo nomadi, allevatori, commercianti e predoni, nei “contadini del deserto”.


Non sarà romantico né confortante, ma la gente di qui non ha tempo per i rimpianti. La necessità di sopravvivere li spinge ad adattarsi alle nuove condizioni e, con l’innato orgoglio della loro stirpe, continuano a guardare con speranza al futuro, anche se siamo in uno dei paesi più poveri del mondo.
Queste montagne sono lontane anche dal flusso turistico, che in Niger si dirige di preferenza verso i grandi spazi del Téneré.
Noi siamo arrivati qua grazie agli amici dell’associazione Les Cultures di Lecco, che da tempo collabora con un’organizzazione di Agadez. Costruiscono scuole, dispensari medici e sostengono lo sviluppo di cooperative nella zona dell’Air. Ci hanno invitato sui Bagzan per visitare il villaggio dove fra pochi mesi cominceranno la costruzione di una nuova scuola.

I sentieri dei Bagzan
Dunque eccoci qua con la nostra carovana: Bukka, fidata guida e interprete, Anoran, cuoco e straordinario narratore di indovinelli attorno al fuoco dei bivacchi, e Agi, silenzioso conduttore dei nostri due dromedari.
Nei giorni scorsi abbiamo attraversato la pianura con la jeep. Nell’Air non ci sono vere e proprie strade, ma solo piste in terra battuta che, nella stagione delle piogge, sono regolarmente rese impraticabili dallo straripamento dei fiumi. Interi villaggi possono restare isolati per mesi. Adesso però siamo alle soglie dell’inverno, il clima è secco e c’è gran movimento sulle piste. Accanto alle lente carovane di dromedari sfrecciano i camion, con i soliti carichi di cipolle…


Ai piedi dei Bagzan abbiamo lasciato l’auto, per incamminarci lungo i sentieri che salgono dolcemente verso le montagne, attraverso gole intagliate fra ripide pareti.
Ora siamo accampati a poca distanza dal villaggio di Emalaoule, sull’altopiano. Attorno un paesaggio surreale, disseminato di gigantesche “uova” di granito, modellate dal vento e dal sole. All’orizzonte cumuli di rocce e, mille metri sotto di noi, l’immensa distesa dell’Air.

Cercasi alunni disperatamente…

Questa sera al campo c’è un ospite, arrivato giusto in tempo per l’immancabile tè dopo cena. Si chiama Soloulu ed è l’insegnante della futura scuola.
“Sulle nostre montagne il tasso di alfabetizzazione è quasi pari a zero – racconta, mentre, come vuole la tradizione, sorseggiamo il tè accompagnandolo con pezzetti di formaggio di capra – c’è una sola scuola a Bagzan Hammas, ma quest’anno le lezioni non sono ancora cominciate. I maestri sono in sciopero in tutto il Paese. Inoltre non è facile trovare qualcuno disposto a venire fin qui per insegnare”.


Per lui è diverso. Soloulu fra queste montagne ci è nato e, dopo aver studiato in città, è tornato a casa, per fare da maestro ai bambini del suo stesso villaggio.
“Io sono stato mandato a scuola per punizione – ricorda – Quando ero piccolo spettava ai capo villaggio il compito di fare il reclutamento scolastico e spesso questa facoltà era usata come ritorsione verso chi gli aveva fatto qualche sgarbo. Così un giorno mio padre radunò i fratelli e ci disse che il capo voleva che uno di noi partisse per Agadez e andasse a scuola. Io mi offrii volontario. Furono anni molto duri, ma lo studio mi piaceva e riuscii a prendere il diploma”.
Oggi il “reclutamento forzato” non esiste più, ma lo Stato sta attuando una grossa campagna di scolarizzazione e spetta ai maestri come lui convincere le famiglie a far studiare i figli. Un compito non facile: “Qui i bambini sono forza lavoro e spesso i genitori ritengono che mandarli a scuola sia una perdita di tempo, se non un danno economico per la famiglia”, conferma amareggiato.
E’ anche per venire incontro alle esigenze delle famiglie che da queste parti costruire una scuola è un po’ come dar vita ad un piccolo villaggio. Accanto alle aule servono gli alloggi per gli insegnanti, i dormitori per i ragazzi che vengono a piedi dai villaggi più lontani, un orto, una cucina e un refettorio. “Spesso – spiega Soloulu – è proprio la possibilità di avere un pasto e un letto presso la scuola che convince i genitori ad inviare i bambini”.


Quando le cose sono ben fatte, comunque, gli alunni non mancano. Lo abbiamo visto ad Assada, un villaggio dell’Air, dove da qualche anno funziona una scuola costruita con il contributo di Les Cultures. La frequentano regolarmente una quarantina di ragazzi e anche la popolazione, dopo le iniziali diffidenze, è entusiasta e orgogliosa della struttura.
Sui Bagzan tutto sarà più difficile, a cominciare dalla costruzione. Gli operai dovranno venire dalla pianura, così come i materiali edili, che dovranno essere trasportati a dorso d’asino.
Soloulu non vede l’ora di cominciare le lezioni e, per anticipare i tempi, ha trovato una soluzione “volante”: “Ho quasi terminato la costruzione di una grossa capanna proprio vicino a casa mia – annuncia – E’ solo una sistemazione provvisoria, ma fra un paio di settimane i ragazzi potranno venire lì per frequentare le lezioni!”.

La cultura è il futuro
Rimane però il problema della sensibilizzazione: come si fa a spiegare l’importanza dello studio a chi si sente destinato per la vita a piantar cipolle?
“Il fatto è proprio questo – insiste il nostro amico - l’istruzione è l’unica speranza per un futuro diverso. Solo chi sa leggere e scrivere, solo chi, oltre al nostro idioma, parla il francese, la lingua più diffusa nell’Africa occidentale, può sperare di migliorare le proprie condizioni. Non ci può essere sviluppo senza educazione. Prima che delle infrastrutture, delle strade e dell’energia elettrica abbiamo bisogno della cultura!”.Adesso è ora di salutarci, domani Soloulu deve alzarsi all’alba per seguire la costruzione della sua scuola-capanna.
Mentre lui si allontana Bukka ci versa un’ultima tazza di tè: “Vedete – dice quasi a commento del nostro incontro – tutto ciò che facciamo non è per noi, ma per le generazioni che verranno…”.
E’ una frase strana, che alle nostre orecchie sa un po’ di retorica. Ma chissà qual è il suo vero significato, in bocca al discendente di popolo che, per centinaia d’anni, ha saputo prosperare in uno degli ambienti più inospitali del mondo.

lunedì 15 gennaio 2018

Una Notte a Paiju

I bambini di Askole, l'ultimo villaggio sulla via del Baltoro

Paiju è l’ultima oasi prima del ghiacciaio: un ruscello di acqua limpida e antiche piante contorte, qualche filo d’erba e cespugli spinosi.

Di fronte il muro nero del Baltoro con le sue Colonne d’Ercole di rosso granito e montagne bianche all’orizzonte. Intorno sabbia ciottoli e sfasciumi. Brandelli di mondo masticati e sputati dai denti del freddo e del tempo. Non c’è nulla d’accogliente in questa terra che costantemente si lascia cadere verso il basso e il poco verde dell’oasi non basta per farti sentire al riparo dall’immensa rovina.

Il paesaggio desolato riecheggia la voce della Grane Montagna: “Non è terra di uomini questa”. Karakorum la chiamarono gli antichi viaggiatori: Pietre Nere, nulla di più... Eppure siamo solo sulla soglia del regno di ghiaccio, qui ancora resiste la vita, stentata, ostinata e sorprendente, come l’apparizione ardente e insieme leggerissima di un arbusto fiorito fra le pietre.

I colori della vita fra le pietre nere e il ghiaccio

Qui, dove c’è ancora terra sotto i piedi, i portatori fanno sosta almeno due notti, prima di prendere il largo sul Baltoro. Bisogna riposare e prepararsi ad affrontare il freddo e le difficoltà del mare gelato. Ci sono riti antichi a cui assolvere, che si ripetono ogni volta, fin dai tempi delle prime esplorazioni.

Il primo di questi è la distribuzione della farina per il chapati. Non è un’operazione semplice e neppure breve. Le focacce cotte sul fuoco dei bivacchi saranno praticamente l’unico pasto dei portatori per i prossimi giorni e la riserva dovrà bastare per l’andata e il ritorno. Ogni grammo è prezioso e ciascuno vuole essere sicuro di avere la propria parte.

Durante la distribuzione della farina a Paiju

Una gran folla si raduna attorno al sirdar, che calcola le razioni e pesa i sacchi. Ma qui anche il responso della bilancia è argomento di discussione. C’è gran fermento e vociare per tutto il campo. Occorrono ore prima che ciascuno sia soddisfatto. Non è la paura di ricevere meno di quello che spetta. Non solo. E’ il gusto tutto pakistano per la contrattazione.

E’ lo stesso fermento che anima i bazar delle città, dove vendere e comprare sono un’arte da praticare con pazienza e dedizione.
“Non mi piace fare affari con gli americani e i giapponesi – ci disse un giorno un venditore di cristalli a Skardu, mentre sorseggiavamo tè verde, dopo una mattinata trascorsa a patteggiare i nostri acquisti – Loro arrivano e non spiccicano parola. Qualsiasi prezzo tu chieda, tirano fuori i soldi e pagano. Con gli italiani è diverso: anche a voi piace discutere, mercanteggiare, proprio come a noi pakistani!”.

Quando cala la sera a Paiju arriva il momento della festa. Per tutte le altre tappe del viaggio i portatori vanno a dormire presto. Subito dopo la cena si coricano nei loro rifugi: cerchi di pietre coperti da un telo di cellophane. Non ci sono sacchi a pelo per loro, solo qualche vecchia coperta, per i più fortunati, e gli stessi vestiti indossati dal giorno della partenza: lo shalwar kamez di cotone leggero, un maglione rattoppato o una giacca a vento ereditata da qualche alpinista.

Un portatore baltì con il suo basto

A Paiju però è diverso, qui la notte non è fatta per dormire, ma per ballare e cantare. Alla luce dei falò i duri uomini del Karakorum si trasformano in danzatori dalle movenze quasi femminili, i bidoni del kerosene diventano tamburi e voci acute intonano melodie sentimentali.

Un vecchio portatore canta la storia di un amore tradito: “Nei tuoi occhi ci sono le stelle. Ma le stelle brillano nella notte e io ho bisogno della luce del giorno”. E ancora: “Tu mi hai ferito il cuore, ma io non posso fare altrettanto, perché non si può ferire chi non ha sentimenti”.

Quanti anni avrà? Forse una sessantina, ma è difficile dirlo. Qui il mestiere di vivere scolpisce presto i corpi. A quindici anni i ragazzini sono già uomini con la pelle scura e muscoli asciutti e infaticabili, buoni per mettersi il bastino sulle spalle e cominciare a camminare…

In cammino verso il K2


Sembrano indistruttibili come il granito delle montagne i giovani portatori baltì. I più bravi sono capaci di percorrere in un giorno, con trenta chili sulla schiena, il doppio della strada fatta da un turista.

Basta un complimento del sirdar e quattro soldi in più per farli sentire felici. Ma è tutto un inganno: il sole e il freddo del Baltoro spaccano anche la roccia più dura.

La verità arriva dal ghiacciaio, assieme a quelli che rientrano di corsa ad Askole per prendere un nuovo carico. Alì ha una vescica purulenta su un piede, grossa come un uovo. Karim si è ferito una mano con del ferro arrugginito e adesso la cancrena gassosa gli sta portando via il pollice. Hussein non aveva occhiali da sole e da due giorni cammina con il braccio sulla spalla di un compagno che gli fa da guida: l’oftalmia lo ha reso completamente cieco. Muhammad piscia sangue e ogni movimento gli costa dolore e fatica. Abbas è continuamente scosso da colpi di tosse e il catarro rischia di soffocarlo ad ogni respiro.

I nomi potrebbero essere anche altri, ma le storie si ripetono sempre uguali. Sono forti i giovani portatori baltì, ma si consumano in fretta. Fra non molte stagioni saranno dei vecchi tremolanti e rinsecchiti, che ancora arrancano lungo la pista, schiantati da un carico ormai troppo pesante.

Il Paiju Peak

Ma la sera, a Paiju, anche i piedi dei vecchi portatori tornano agili e leggeri. Saper ballare e cantare per loro è una fortuna. I compagni tutto intorno battono le mani a ritmo di musica e ogni tanto gli infilano qualche rupia nel risvolto del copricapo baltì, in segno di apprezzamento.

I danzatori si danno il cambio all’interno del cerchio. Portano le stesse calzature che utilizzano ogni giorno durante il trekking. Sembrano scarpe da ginnastica, ma in realtà sono stivaletti bassi, fatti completamente di gomma, con tanto di stringhe finte. Li portano tutti dal giorno della partenza e li useranno anche sul ghiacciaio. Qualcuno possiede un paio di calze, gli altri indossano le scarpe direttamente a contatto con la pelle.

Qualcuno intona una nuova canzone che parla di casa e di affetti lontani: “Ho scordato ogni cosa, tranne il tuo amore...”.

I tamburi suonano più forte e il coro risponde ad ogni strofa. Come devono essere vitali per loro questi momenti! Questa gente prende la pioggia e il sole con l’indifferenza della pietra e la notte si rannicchia in gruppo sotto rifugi improvvisati, come gli animali nelle grotte delle montagne. E’ come se da ogni lato una natura e un destino onnipotenti accerchiassero e strangolassero l’umanità.

Le Cattedrali del Baltoro viste da Urdukas

Nell’immenso Karakorum l’uomo non è diverso da una capra o da un uccello. Ma la sera, attorno al fuoco, i portatori fanno ciò che nessun animale può fare: cantano e rammentano chi sono. Evocano ciò che nessun animale possiede: una storia, una tradizione, una cultura. Mettono in atto l’umanità.

Il canto, la poesia, la danza, sono simboli che riportano al presente, svelano ciò che è stato e che le leggi della natura hanno cancellato dall’oggi. Ciò che ancora si può nominare non è del tutto perduto. Potenza della parola, essenzialità dell’arte!

Strano pensare che questa gente sia la stessa che tiene le proprie mogli e figlie prigioniere fra le mura di casa o le manda nei campi, a fare i duri lavori che da noi spettano agli uomini. “Bestie da soma” si intitolava un documentario dedicato alla condizione femminile fra queste montagne…

Tutto vero, eppure il pregiudizio è un velo sottile, che confonde lo sguardo senza che tu te ne accorga. A Skardu come ad Askole abbiamo visto donne contadine e bambini vocianti fra le coltivazioni di frumento e colza. Dove sono gli uomini, ci chiedevamo con un filo di ironia e disapprovazione? Non riuscivamo a vederli, eppure erano tanto vicini, proprio dietro a noi, con i nostri carichi sulle spalle, assicurati su scomodi bastini li legno, che come spallacci hanno semplici pezzi di corda. Venticinque chili ogni giorno, 500 rupie ad ogni tappa, meno di 7 euro per 8 ore di marcia. Bestie da soma…

mercoledì 2 luglio 2014

Paura del pubblico

Uno scritto di diversi anni fa.... ma sempre attuale!

Cominciò tutto quando facevo il chierichetto…
Iniziava la messa, si entrava in scena, il prete davanti, noi giovani assistenti schierati dietro e già cominciavano i miei guai…
Atto primo, genuflessione davanti all’altare.
Concentrati Serafino: gamba sinistra avanti e gamba destra indietro… non è difficile!”
Pronti, via!
Regolarmente quattro figure in abiti cerimoniali si inginocchiano all’unisono con la corretta procedura in voga nella Chiesa cattolica da quasi duemila anni.
Solo uno restava un attimo titubante. Poi, in netto ritardo rispetto agli altri, si genufletteva anche lui, sconfinando per l’ennesima volta nell’eresia: a ridajie! Gamba destra avanti e gamba sinistra indietro. Come non detto… fottuta paura del pubblico!

Avrete già capito che la mia carriera nei ranghi ecclesiastici non durò poi molto: rassegnai le dimissioni il giorno in cui rovesciai l’ampolla del vino benedetto durante la messa solenne della domenica…

Per superare la delusione decisi di buttarmi nello sport, che in Brianza, così come in ogni altro luogo del Bel Paese, allora come oggi era sinonimo di pallone.
Qui le cose andarono anche peggio, perché ad una manifesta inadeguatezza tecnico-atletica associavo una completa ignoranza delle regole del gioco, che, naturalmente, nessuno si era preso la briga di spiegarmi, ritenendone le conoscenza insita nel Dna nazionale. Insomma, gli uccelli volano, i cani abbaiano e gli italiani giocano al pallone… semplice no?
Poi c’era sempre la paura del pubblico, acuita dal fatto che gli spettatori delle partite oratoriane, pur essendo spesso gli stessi che al mattino assistevano ispirati alla santa messa, non mantenevano sugli spalti lo stesso contegno assunto fra le panche della chiesa, e le “benedizioni” dei padri dei miei compagni di squadra mi davano più di qualche motivo d’inquietudine…

A salvarmi dal deperimento psico-fisico e dal completo isolamento sociale fu l’incontro con la montagna: un amore a prima vista!
Finalmente avevo trovato un’attività nella quale non c’era da far altro che mettere un piede davanti all’altro, tenere duro, rimuginare in tranquillità i propri pensieri e godersi la bellezza e il silenzio di posti fantastici. Tutte cose in cui, modestamente, ero bravissimo. Poi, soprattutto, non c’era nessuno ad assistere!

Dopo qualche anno cominciai ad arrampicare: seconda folgorazione!
Lo sport perfetto per me. Niente pubblico, niente competizione diretta con gli altri. Solo il piacere della scoperta, del movimento, la bellezza dei luoghi, il gusto di superare i propri limiti personali e infinite salite da sognare.

Fu sull’onda di questo entusiasmo che ebbi un giorno la malsana idea di lanciarmi in una gara d’arrampicata. Era uno dei primi campionati provinciali all’Aprica, aperto anche ai non-locals.
L’organizzazione era perfetta e si fregiava di un fornitissimo servizio mensa per gli atleti, con abbondanza di salumi, bresaole, bitto, vino, grappa e raccomandazioni del tipo: “Mangiate ragazzi, che altrimenti come fate a stare attaccati!?!”… Bei tempi!
Naturalmente io seguii scrupolosamente i consigli e soffocai l’insorgente ansia da prestazione con abbondanti libagioni. Cosa che rischiò d’essermi fatale...

Il dramma cominciò quando venne il mio turno nella qualifica flash. Con estremo sforzo di coordinazione motoria e sfidando un violento attacco tachicardico, arrancai fin sotto la base della parete.
Ecco il primo crux della via: legare la corda all’imbrago!
Ok Sera, stai calmo: nodo delle guide, lo fai meccanicamente da anni, no?”
Appunto…no! File not found…
Mentre le mie mani si agitavano inutilmente modello Mulinex Gino Notari, in veste di assicuratore, si avvicinò e mi chiese candidamente: “Ma è la prima volta che scali?”.
La domanda rischiò di farmi cadere stecchito, ma gli fui comunque grato per l’aiuto che mi dette nel venire a capo del mio “nodo gordiano” e per il suo semplice ma caloroso incoraggiamento: “Vai tranquillo!”… Tranquillo!?!?!?

La prima parte della via era una placca verticale a grandi ronchie, cosa che mi consentì di andare avanti nonostante la mia progressione in stile figlio di Goldrake, non nel senso del celebre boulder, ma del robot. Avete presente quei gioppini con cui si giocava tra la fine degli Anni ’70 e i primi Anni ’80? Quelli che potevano muovere solo le braccia avanti e indietro e per il resto erano privi di ogni articolazione semovibile? Ecco, uguale!

Prima di superare il tettino, dove la via faceva selezione, c’era un ottimo riposo e lì tirai il fiato. Nel farlo però mi accorsi che assieme al fiato rischiavano di venir su anche il vinello e le bresaole sbranate qualche ora prima.
Cribbio, mi vien la nausea!”
Guardai giù e vedi una marea di gente sotto la parete. Già mi immaginavo la scena raccapricciante: “Porca miseria, adesso vomito sul pubblico!”.

Cercai di salvare la situazione rimettendomi in movimento ed effettivamente funzionò. Ma appena mi attaccai sulle giavellone del tetto: trac! Crampo al bicipite sinistro!
Poco male – pensai – Sono su un tetto e la ghisa alle braccia è una cosa normale…”.
Lolottai su un fianco per distendere il braccio e: trac! Crampo alla gamba destra!
Restai bloccato in quella posizione come un gatto di marmo, senza riuscire più a muovermi. Poi finalmente le mani si aprirono e… fine della gara!

Nonostante la tragicomica prestazione decisi che l’esperienza non era stata poi malvagia e che forse valeva la pena di fare qualche garetta ogni tanto, come terapia psicologica contro la mia fobia del pubblico.

Tenta oggi e riprova domani arrivai alla “gara della vita” (la competizione amatoriale organizzata a margine dei mondiali di arrampicata a Lecco) in uno stato d’animo perfetto: tranquillo e pacifico come se stessi scalando al pannello sotto casa mia!
Questa volta non c’erano bresaole a minacciare la mia digestione e l’igiene del pubblico....
Macinai le prese della via di finale fino a metà percorso, ma ciò che non potè l’emozione lo fece la sfiga: serie di tacche, incrocio di braccia, bicipite che sfrega sugli occhiali, occhiali in caduta libera… Mai successo prima e mai accaduto dopo!
Lo spettacolo però non era finito. Con un agile bloccaggio di cosce fermai la caduta degli occhiali e mentre metà del pubblico rantolava per le risate e l’altra metà (ho tanti amici per fortuna!) mi incitava a continuare, cercai di rimettermeli sul naso con la mano sinistra.
Durante la caduta però una stanghetta si era ripiegata e rimetterla in posizione con una mano sola, mentre con l’altra tenevo disperatamente la tacca, non fu un’impresa facile. Cribbio, la fissata più lunga e faticosa della mia vita!
Inutile dire che grazie a questa dimostrazione di agilità e intelligenza motoria mi spensi dopo poche prese, restando ben lontano dal podio e dal premio da me più ambito: il mega scatolone di caramelle e cioccolatini offerto dall’azienda dolciaria locale!

Sic transit gloria mundi…