lunedì 29 gennaio 2018

Le scuole del deserto


(Articolo scritto dopo il viaggio in Niger del 2004)

Aman iman, l’acqua è vita, dicono i tuareg.
Difficile pensarla in altro modo mentre, all’ombra di un grande masso, ci laviamo ad una fonte limpidissima. Attorno piante fiorite e macchie di menta e capelvenere. Un miraggio, dopo giorni di deserto e acace spinose.
Se fosse tutto così, il territorio dei monti Bagzan sarebbe un paradiso.
Invece non è molto differente dal resto dell’Air: una spianata di rocce nere e sabbia, piantata nel mezzo del Niger, cuore arido dell’Africa.
L’unica differenza è che qui siamo a mille e cinquecento metri di quota, su un altopiano sorretto da una cerchia di pareti che si alzano improvvise nel deserto.
Fra queste montagne vivono quattromila persone, disseminate in una manciata di villaggi isolati dal resto del mondo.

I contadini del deserto
Non ci sono strade sui Bagzan, solo sentieri battuti ogni giorno da decine di piccole carovane. Asini e uomini scendono verso il piano, portando quei prodotti che qui crescono un po’ meno a fatica che altrove. Tonnellate d’aglio e cipolle procedono a dorso d’animale verso il villaggio di Tabelot e da lì, sulle piste battute dai camion, ai mercati di Agadez, la seconda città del Niger.
Sono i tuareg a coltivare questa terra assetata. I cambiamenti storici ed economici hanno ormai trasformato i “signori del deserto”, un tempo nomadi, allevatori, commercianti e predoni, nei “contadini del deserto”.


Non sarà romantico né confortante, ma la gente di qui non ha tempo per i rimpianti. La necessità di sopravvivere li spinge ad adattarsi alle nuove condizioni e, con l’innato orgoglio della loro stirpe, continuano a guardare con speranza al futuro, anche se siamo in uno dei paesi più poveri del mondo.
Queste montagne sono lontane anche dal flusso turistico, che in Niger si dirige di preferenza verso i grandi spazi del Téneré.
Noi siamo arrivati qua grazie agli amici dell’associazione Les Cultures di Lecco, che da tempo collabora con un’organizzazione di Agadez. Costruiscono scuole, dispensari medici e sostengono lo sviluppo di cooperative nella zona dell’Air. Ci hanno invitato sui Bagzan per visitare il villaggio dove fra pochi mesi cominceranno la costruzione di una nuova scuola.

I sentieri dei Bagzan
Dunque eccoci qua con la nostra carovana: Bukka, fidata guida e interprete, Anoran, cuoco e straordinario narratore di indovinelli attorno al fuoco dei bivacchi, e Agi, silenzioso conduttore dei nostri due dromedari.
Nei giorni scorsi abbiamo attraversato la pianura con la jeep. Nell’Air non ci sono vere e proprie strade, ma solo piste in terra battuta che, nella stagione delle piogge, sono regolarmente rese impraticabili dallo straripamento dei fiumi. Interi villaggi possono restare isolati per mesi. Adesso però siamo alle soglie dell’inverno, il clima è secco e c’è gran movimento sulle piste. Accanto alle lente carovane di dromedari sfrecciano i camion, con i soliti carichi di cipolle…


Ai piedi dei Bagzan abbiamo lasciato l’auto, per incamminarci lungo i sentieri che salgono dolcemente verso le montagne, attraverso gole intagliate fra ripide pareti.
Ora siamo accampati a poca distanza dal villaggio di Emalaoule, sull’altopiano. Attorno un paesaggio surreale, disseminato di gigantesche “uova” di granito, modellate dal vento e dal sole. All’orizzonte cumuli di rocce e, mille metri sotto di noi, l’immensa distesa dell’Air.

Cercasi alunni disperatamente…

Questa sera al campo c’è un ospite, arrivato giusto in tempo per l’immancabile tè dopo cena. Si chiama Soloulu ed è l’insegnante della futura scuola.
“Sulle nostre montagne il tasso di alfabetizzazione è quasi pari a zero – racconta, mentre, come vuole la tradizione, sorseggiamo il tè accompagnandolo con pezzetti di formaggio di capra – c’è una sola scuola a Bagzan Hammas, ma quest’anno le lezioni non sono ancora cominciate. I maestri sono in sciopero in tutto il Paese. Inoltre non è facile trovare qualcuno disposto a venire fin qui per insegnare”.


Per lui è diverso. Soloulu fra queste montagne ci è nato e, dopo aver studiato in città, è tornato a casa, per fare da maestro ai bambini del suo stesso villaggio.
“Io sono stato mandato a scuola per punizione – ricorda – Quando ero piccolo spettava ai capo villaggio il compito di fare il reclutamento scolastico e spesso questa facoltà era usata come ritorsione verso chi gli aveva fatto qualche sgarbo. Così un giorno mio padre radunò i fratelli e ci disse che il capo voleva che uno di noi partisse per Agadez e andasse a scuola. Io mi offrii volontario. Furono anni molto duri, ma lo studio mi piaceva e riuscii a prendere il diploma”.
Oggi il “reclutamento forzato” non esiste più, ma lo Stato sta attuando una grossa campagna di scolarizzazione e spetta ai maestri come lui convincere le famiglie a far studiare i figli. Un compito non facile: “Qui i bambini sono forza lavoro e spesso i genitori ritengono che mandarli a scuola sia una perdita di tempo, se non un danno economico per la famiglia”, conferma amareggiato.
E’ anche per venire incontro alle esigenze delle famiglie che da queste parti costruire una scuola è un po’ come dar vita ad un piccolo villaggio. Accanto alle aule servono gli alloggi per gli insegnanti, i dormitori per i ragazzi che vengono a piedi dai villaggi più lontani, un orto, una cucina e un refettorio. “Spesso – spiega Soloulu – è proprio la possibilità di avere un pasto e un letto presso la scuola che convince i genitori ad inviare i bambini”.


Quando le cose sono ben fatte, comunque, gli alunni non mancano. Lo abbiamo visto ad Assada, un villaggio dell’Air, dove da qualche anno funziona una scuola costruita con il contributo di Les Cultures. La frequentano regolarmente una quarantina di ragazzi e anche la popolazione, dopo le iniziali diffidenze, è entusiasta e orgogliosa della struttura.
Sui Bagzan tutto sarà più difficile, a cominciare dalla costruzione. Gli operai dovranno venire dalla pianura, così come i materiali edili, che dovranno essere trasportati a dorso d’asino.
Soloulu non vede l’ora di cominciare le lezioni e, per anticipare i tempi, ha trovato una soluzione “volante”: “Ho quasi terminato la costruzione di una grossa capanna proprio vicino a casa mia – annuncia – E’ solo una sistemazione provvisoria, ma fra un paio di settimane i ragazzi potranno venire lì per frequentare le lezioni!”.

La cultura è il futuro
Rimane però il problema della sensibilizzazione: come si fa a spiegare l’importanza dello studio a chi si sente destinato per la vita a piantar cipolle?
“Il fatto è proprio questo – insiste il nostro amico - l’istruzione è l’unica speranza per un futuro diverso. Solo chi sa leggere e scrivere, solo chi, oltre al nostro idioma, parla il francese, la lingua più diffusa nell’Africa occidentale, può sperare di migliorare le proprie condizioni. Non ci può essere sviluppo senza educazione. Prima che delle infrastrutture, delle strade e dell’energia elettrica abbiamo bisogno della cultura!”.Adesso è ora di salutarci, domani Soloulu deve alzarsi all’alba per seguire la costruzione della sua scuola-capanna.
Mentre lui si allontana Bukka ci versa un’ultima tazza di tè: “Vedete – dice quasi a commento del nostro incontro – tutto ciò che facciamo non è per noi, ma per le generazioni che verranno…”.
E’ una frase strana, che alle nostre orecchie sa un po’ di retorica. Ma chissà qual è il suo vero significato, in bocca al discendente di popolo che, per centinaia d’anni, ha saputo prosperare in uno degli ambienti più inospitali del mondo.

lunedì 15 gennaio 2018

Una Notte a Paiju

I bambini di Askole, l'ultimo villaggio sulla via del Baltoro

Paiju è l’ultima oasi prima del ghiacciaio: un ruscello di acqua limpida e antiche piante contorte, qualche filo d’erba e cespugli spinosi.

Di fronte il muro nero del Baltoro con le sue Colonne d’Ercole di rosso granito e montagne bianche all’orizzonte. Intorno sabbia ciottoli e sfasciumi. Brandelli di mondo masticati e sputati dai denti del freddo e del tempo. Non c’è nulla d’accogliente in questa terra che costantemente si lascia cadere verso il basso e il poco verde dell’oasi non basta per farti sentire al riparo dall’immensa rovina.

Il paesaggio desolato riecheggia la voce della Grane Montagna: “Non è terra di uomini questa”. Karakorum la chiamarono gli antichi viaggiatori: Pietre Nere, nulla di più... Eppure siamo solo sulla soglia del regno di ghiaccio, qui ancora resiste la vita, stentata, ostinata e sorprendente, come l’apparizione ardente e insieme leggerissima di un arbusto fiorito fra le pietre.

I colori della vita fra le pietre nere e il ghiaccio

Qui, dove c’è ancora terra sotto i piedi, i portatori fanno sosta almeno due notti, prima di prendere il largo sul Baltoro. Bisogna riposare e prepararsi ad affrontare il freddo e le difficoltà del mare gelato. Ci sono riti antichi a cui assolvere, che si ripetono ogni volta, fin dai tempi delle prime esplorazioni.

Il primo di questi è la distribuzione della farina per il chapati. Non è un’operazione semplice e neppure breve. Le focacce cotte sul fuoco dei bivacchi saranno praticamente l’unico pasto dei portatori per i prossimi giorni e la riserva dovrà bastare per l’andata e il ritorno. Ogni grammo è prezioso e ciascuno vuole essere sicuro di avere la propria parte.

Durante la distribuzione della farina a Paiju

Una gran folla si raduna attorno al sirdar, che calcola le razioni e pesa i sacchi. Ma qui anche il responso della bilancia è argomento di discussione. C’è gran fermento e vociare per tutto il campo. Occorrono ore prima che ciascuno sia soddisfatto. Non è la paura di ricevere meno di quello che spetta. Non solo. E’ il gusto tutto pakistano per la contrattazione.

E’ lo stesso fermento che anima i bazar delle città, dove vendere e comprare sono un’arte da praticare con pazienza e dedizione.
“Non mi piace fare affari con gli americani e i giapponesi – ci disse un giorno un venditore di cristalli a Skardu, mentre sorseggiavamo tè verde, dopo una mattinata trascorsa a patteggiare i nostri acquisti – Loro arrivano e non spiccicano parola. Qualsiasi prezzo tu chieda, tirano fuori i soldi e pagano. Con gli italiani è diverso: anche a voi piace discutere, mercanteggiare, proprio come a noi pakistani!”.

Quando cala la sera a Paiju arriva il momento della festa. Per tutte le altre tappe del viaggio i portatori vanno a dormire presto. Subito dopo la cena si coricano nei loro rifugi: cerchi di pietre coperti da un telo di cellophane. Non ci sono sacchi a pelo per loro, solo qualche vecchia coperta, per i più fortunati, e gli stessi vestiti indossati dal giorno della partenza: lo shalwar kamez di cotone leggero, un maglione rattoppato o una giacca a vento ereditata da qualche alpinista.

Un portatore baltì con il suo basto

A Paiju però è diverso, qui la notte non è fatta per dormire, ma per ballare e cantare. Alla luce dei falò i duri uomini del Karakorum si trasformano in danzatori dalle movenze quasi femminili, i bidoni del kerosene diventano tamburi e voci acute intonano melodie sentimentali.

Un vecchio portatore canta la storia di un amore tradito: “Nei tuoi occhi ci sono le stelle. Ma le stelle brillano nella notte e io ho bisogno della luce del giorno”. E ancora: “Tu mi hai ferito il cuore, ma io non posso fare altrettanto, perché non si può ferire chi non ha sentimenti”.

Quanti anni avrà? Forse una sessantina, ma è difficile dirlo. Qui il mestiere di vivere scolpisce presto i corpi. A quindici anni i ragazzini sono già uomini con la pelle scura e muscoli asciutti e infaticabili, buoni per mettersi il bastino sulle spalle e cominciare a camminare…

In cammino verso il K2


Sembrano indistruttibili come il granito delle montagne i giovani portatori baltì. I più bravi sono capaci di percorrere in un giorno, con trenta chili sulla schiena, il doppio della strada fatta da un turista.

Basta un complimento del sirdar e quattro soldi in più per farli sentire felici. Ma è tutto un inganno: il sole e il freddo del Baltoro spaccano anche la roccia più dura.

La verità arriva dal ghiacciaio, assieme a quelli che rientrano di corsa ad Askole per prendere un nuovo carico. Alì ha una vescica purulenta su un piede, grossa come un uovo. Karim si è ferito una mano con del ferro arrugginito e adesso la cancrena gassosa gli sta portando via il pollice. Hussein non aveva occhiali da sole e da due giorni cammina con il braccio sulla spalla di un compagno che gli fa da guida: l’oftalmia lo ha reso completamente cieco. Muhammad piscia sangue e ogni movimento gli costa dolore e fatica. Abbas è continuamente scosso da colpi di tosse e il catarro rischia di soffocarlo ad ogni respiro.

I nomi potrebbero essere anche altri, ma le storie si ripetono sempre uguali. Sono forti i giovani portatori baltì, ma si consumano in fretta. Fra non molte stagioni saranno dei vecchi tremolanti e rinsecchiti, che ancora arrancano lungo la pista, schiantati da un carico ormai troppo pesante.

Il Paiju Peak

Ma la sera, a Paiju, anche i piedi dei vecchi portatori tornano agili e leggeri. Saper ballare e cantare per loro è una fortuna. I compagni tutto intorno battono le mani a ritmo di musica e ogni tanto gli infilano qualche rupia nel risvolto del copricapo baltì, in segno di apprezzamento.

I danzatori si danno il cambio all’interno del cerchio. Portano le stesse calzature che utilizzano ogni giorno durante il trekking. Sembrano scarpe da ginnastica, ma in realtà sono stivaletti bassi, fatti completamente di gomma, con tanto di stringhe finte. Li portano tutti dal giorno della partenza e li useranno anche sul ghiacciaio. Qualcuno possiede un paio di calze, gli altri indossano le scarpe direttamente a contatto con la pelle.

Qualcuno intona una nuova canzone che parla di casa e di affetti lontani: “Ho scordato ogni cosa, tranne il tuo amore...”.

I tamburi suonano più forte e il coro risponde ad ogni strofa. Come devono essere vitali per loro questi momenti! Questa gente prende la pioggia e il sole con l’indifferenza della pietra e la notte si rannicchia in gruppo sotto rifugi improvvisati, come gli animali nelle grotte delle montagne. E’ come se da ogni lato una natura e un destino onnipotenti accerchiassero e strangolassero l’umanità.

Le Cattedrali del Baltoro viste da Urdukas

Nell’immenso Karakorum l’uomo non è diverso da una capra o da un uccello. Ma la sera, attorno al fuoco, i portatori fanno ciò che nessun animale può fare: cantano e rammentano chi sono. Evocano ciò che nessun animale possiede: una storia, una tradizione, una cultura. Mettono in atto l’umanità.

Il canto, la poesia, la danza, sono simboli che riportano al presente, svelano ciò che è stato e che le leggi della natura hanno cancellato dall’oggi. Ciò che ancora si può nominare non è del tutto perduto. Potenza della parola, essenzialità dell’arte!

Strano pensare che questa gente sia la stessa che tiene le proprie mogli e figlie prigioniere fra le mura di casa o le manda nei campi, a fare i duri lavori che da noi spettano agli uomini. “Bestie da soma” si intitolava un documentario dedicato alla condizione femminile fra queste montagne…

Tutto vero, eppure il pregiudizio è un velo sottile, che confonde lo sguardo senza che tu te ne accorga. A Skardu come ad Askole abbiamo visto donne contadine e bambini vocianti fra le coltivazioni di frumento e colza. Dove sono gli uomini, ci chiedevamo con un filo di ironia e disapprovazione? Non riuscivamo a vederli, eppure erano tanto vicini, proprio dietro a noi, con i nostri carichi sulle spalle, assicurati su scomodi bastini li legno, che come spallacci hanno semplici pezzi di corda. Venticinque chili ogni giorno, 500 rupie ad ogni tappa, meno di 7 euro per 8 ore di marcia. Bestie da soma…