mercoledì 2 luglio 2014

Paura del pubblico

Uno scritto di diversi anni fa.... ma sempre attuale!

Cominciò tutto quando facevo il chierichetto…
Iniziava la messa, si entrava in scena, il prete davanti, noi giovani assistenti schierati dietro e già cominciavano i miei guai…
Atto primo, genuflessione davanti all’altare.
Concentrati Serafino: gamba sinistra avanti e gamba destra indietro… non è difficile!”
Pronti, via!
Regolarmente quattro figure in abiti cerimoniali si inginocchiano all’unisono con la corretta procedura in voga nella Chiesa cattolica da quasi duemila anni.
Solo uno restava un attimo titubante. Poi, in netto ritardo rispetto agli altri, si genufletteva anche lui, sconfinando per l’ennesima volta nell’eresia: a ridajie! Gamba destra avanti e gamba sinistra indietro. Come non detto… fottuta paura del pubblico!

Avrete già capito che la mia carriera nei ranghi ecclesiastici non durò poi molto: rassegnai le dimissioni il giorno in cui rovesciai l’ampolla del vino benedetto durante la messa solenne della domenica…

Per superare la delusione decisi di buttarmi nello sport, che in Brianza, così come in ogni altro luogo del Bel Paese, allora come oggi era sinonimo di pallone.
Qui le cose andarono anche peggio, perché ad una manifesta inadeguatezza tecnico-atletica associavo una completa ignoranza delle regole del gioco, che, naturalmente, nessuno si era preso la briga di spiegarmi, ritenendone le conoscenza insita nel Dna nazionale. Insomma, gli uccelli volano, i cani abbaiano e gli italiani giocano al pallone… semplice no?
Poi c’era sempre la paura del pubblico, acuita dal fatto che gli spettatori delle partite oratoriane, pur essendo spesso gli stessi che al mattino assistevano ispirati alla santa messa, non mantenevano sugli spalti lo stesso contegno assunto fra le panche della chiesa, e le “benedizioni” dei padri dei miei compagni di squadra mi davano più di qualche motivo d’inquietudine…

A salvarmi dal deperimento psico-fisico e dal completo isolamento sociale fu l’incontro con la montagna: un amore a prima vista!
Finalmente avevo trovato un’attività nella quale non c’era da far altro che mettere un piede davanti all’altro, tenere duro, rimuginare in tranquillità i propri pensieri e godersi la bellezza e il silenzio di posti fantastici. Tutte cose in cui, modestamente, ero bravissimo. Poi, soprattutto, non c’era nessuno ad assistere!

Dopo qualche anno cominciai ad arrampicare: seconda folgorazione!
Lo sport perfetto per me. Niente pubblico, niente competizione diretta con gli altri. Solo il piacere della scoperta, del movimento, la bellezza dei luoghi, il gusto di superare i propri limiti personali e infinite salite da sognare.

Fu sull’onda di questo entusiasmo che ebbi un giorno la malsana idea di lanciarmi in una gara d’arrampicata. Era uno dei primi campionati provinciali all’Aprica, aperto anche ai non-locals.
L’organizzazione era perfetta e si fregiava di un fornitissimo servizio mensa per gli atleti, con abbondanza di salumi, bresaole, bitto, vino, grappa e raccomandazioni del tipo: “Mangiate ragazzi, che altrimenti come fate a stare attaccati!?!”… Bei tempi!
Naturalmente io seguii scrupolosamente i consigli e soffocai l’insorgente ansia da prestazione con abbondanti libagioni. Cosa che rischiò d’essermi fatale...

Il dramma cominciò quando venne il mio turno nella qualifica flash. Con estremo sforzo di coordinazione motoria e sfidando un violento attacco tachicardico, arrancai fin sotto la base della parete.
Ecco il primo crux della via: legare la corda all’imbrago!
Ok Sera, stai calmo: nodo delle guide, lo fai meccanicamente da anni, no?”
Appunto…no! File not found…
Mentre le mie mani si agitavano inutilmente modello Mulinex Gino Notari, in veste di assicuratore, si avvicinò e mi chiese candidamente: “Ma è la prima volta che scali?”.
La domanda rischiò di farmi cadere stecchito, ma gli fui comunque grato per l’aiuto che mi dette nel venire a capo del mio “nodo gordiano” e per il suo semplice ma caloroso incoraggiamento: “Vai tranquillo!”… Tranquillo!?!?!?

La prima parte della via era una placca verticale a grandi ronchie, cosa che mi consentì di andare avanti nonostante la mia progressione in stile figlio di Goldrake, non nel senso del celebre boulder, ma del robot. Avete presente quei gioppini con cui si giocava tra la fine degli Anni ’70 e i primi Anni ’80? Quelli che potevano muovere solo le braccia avanti e indietro e per il resto erano privi di ogni articolazione semovibile? Ecco, uguale!

Prima di superare il tettino, dove la via faceva selezione, c’era un ottimo riposo e lì tirai il fiato. Nel farlo però mi accorsi che assieme al fiato rischiavano di venir su anche il vinello e le bresaole sbranate qualche ora prima.
Cribbio, mi vien la nausea!”
Guardai giù e vedi una marea di gente sotto la parete. Già mi immaginavo la scena raccapricciante: “Porca miseria, adesso vomito sul pubblico!”.

Cercai di salvare la situazione rimettendomi in movimento ed effettivamente funzionò. Ma appena mi attaccai sulle giavellone del tetto: trac! Crampo al bicipite sinistro!
Poco male – pensai – Sono su un tetto e la ghisa alle braccia è una cosa normale…”.
Lolottai su un fianco per distendere il braccio e: trac! Crampo alla gamba destra!
Restai bloccato in quella posizione come un gatto di marmo, senza riuscire più a muovermi. Poi finalmente le mani si aprirono e… fine della gara!

Nonostante la tragicomica prestazione decisi che l’esperienza non era stata poi malvagia e che forse valeva la pena di fare qualche garetta ogni tanto, come terapia psicologica contro la mia fobia del pubblico.

Tenta oggi e riprova domani arrivai alla “gara della vita” (la competizione amatoriale organizzata a margine dei mondiali di arrampicata a Lecco) in uno stato d’animo perfetto: tranquillo e pacifico come se stessi scalando al pannello sotto casa mia!
Questa volta non c’erano bresaole a minacciare la mia digestione e l’igiene del pubblico....
Macinai le prese della via di finale fino a metà percorso, ma ciò che non potè l’emozione lo fece la sfiga: serie di tacche, incrocio di braccia, bicipite che sfrega sugli occhiali, occhiali in caduta libera… Mai successo prima e mai accaduto dopo!
Lo spettacolo però non era finito. Con un agile bloccaggio di cosce fermai la caduta degli occhiali e mentre metà del pubblico rantolava per le risate e l’altra metà (ho tanti amici per fortuna!) mi incitava a continuare, cercai di rimettermeli sul naso con la mano sinistra.
Durante la caduta però una stanghetta si era ripiegata e rimetterla in posizione con una mano sola, mentre con l’altra tenevo disperatamente la tacca, non fu un’impresa facile. Cribbio, la fissata più lunga e faticosa della mia vita!
Inutile dire che grazie a questa dimostrazione di agilità e intelligenza motoria mi spensi dopo poche prese, restando ben lontano dal podio e dal premio da me più ambito: il mega scatolone di caramelle e cioccolatini offerto dall’azienda dolciaria locale!

Sic transit gloria mundi…

martedì 1 luglio 2014

Vecchietti

I vecchi brianzoli sono scolpiti nel noce nazionale.
Per lo più sono tirati come doberman e sugli avambracci hanno delle vene che al confronto l’Incredibile Hulk è ‘na mozzarella.
Se cacciano pancia non è per mollezza o cedimento all’età. E’ uno strumento di comunicazione, un modo per dimostrare che a loro non gliene frega nulla del colesterolo. Ul dutur la dieta e le pastiglie se li può ficcare su per il büs del **, che la sera un bell’antipasto de salom e panzeta, ‘na basla de casoela, n’oeff rustì e ‘na bela feta de strachen (ovviamente accompagnati dall’adeguata dose di rosso, ul bionc no perché el cascia infiemazion…) è il minimo che un buon cristiano si meriti a coronamento di una giornata di fatiche, soprattutto se da giovane ha avuto modo di sperimentare da vicino il significato delle parole “la fame nel mondo”.
Li vedi ancora oggi in del runc, con la canottiera scollata a spalline strette (spesso di lana), il fazzoletto annodato al collo, gli stivali di gomma (verdi o marroni) e una gerla con un paio di quintali di fieno in spalla. Capita che in quelle condizioni sudino, ma solo quando sono sotto al rebattone del sole e la temperatura supera i 32 gradi, altrimenti son freschi come rose.
Nelle tasche dei calzoni (marroni kaki o blu toni) hanno sempre:
a – Ul bursen, perché non si sa mai
b – Una castegna d’india, che tiene lontano ul fregiù
c – La renscia, utile/indispensabile per tutte le usuali attività quotidiane (pelare i cunili, fare la punta a una stagia, minacciare i giovani debosciati).
Le identiche caratteristiche (a parte la canottiera di lana) valgono per gli esemplari di sesso femminile.

I vecchi genovesi all’apparenza tendono un po’ ad ammuffire, ma sono come le loro case: l’aspetto esterno non ha nulla a che vedere con le reali condizioni di benessere du scitu. Devi spiare dal portone con le borchie o dalle finestre e allora scopri che certe catapecchie in realtà sono palazzi reali.
Per lo più sembrano avere grosse difficoltà di deambulazione e dispongono di un nutrito e variegato stock di stampelle, grucce, bastoni, carrozzini, ecc…
Abitano sempre in cima a creuse ripidissime lungo le quali risalgono carichi di enormi borse della spesa. Non li vedi mai in movimento (solitamente sono fermi ad ansimare disperatamente o a mugugnare contro le condizioni di degrado della creusa stessa), eppure è certo che arrivino sempre a destinazione.
Se residenti in zona Castelletto sono sempre accompagnati da cane, avente la medesima età del padrone, le medesime difficoltà di deambulazione e il medesimo stock di grucce, stecche, bende, carretti, ecc (i cani, in più, dispongono abitualmente di qualche zona della pelliccia rasata a zero e testimonianza di recenti misteriose operazioni chirurgiche). I suddetti cani condividono con i padroni un istintivo odio per i zueni dai 5/6 anni in su. Misteriosamente cane e padrone si sciolgono in brodo di giuggiole al cospetto di zueni dai 5/6 anni in giù.
Se di sesso femminile (i vecchietti, non i cani) hanno la tendenza a rotolare lungo i corridoi degli autobus, ma è solo una provocazione funzionale ad aizzare il mugugno contro lo scriteriato stile di guida degli autisti dell’AMT (non scordiamoci che siamo nella città natale di Balilla… che l’inse?).
Non si hanno notizie della reale età di nessuno di loro.
Sembra siano eterni.

venerdì 27 giugno 2014

Fra le chiappe del Verdon


Qui a Genova (la mia città adottiva da un po’ di anni a questa parte) per dire placca di roccia si usa il termine “chiappa” (italianizzando il termine dialettale “ciappa”).

Quindi nessuno mi può accusare di turpiloquio se racconto due cose della mia scalata di qualche mese fa sulle più belle chiappe d’Europa.

Anzi, non “su”, ma “fra”. In questo caso le preposizioni semplici fanno una bella differenza!

Già, perché con il “su” ti vai di solito a spalmare fra liscioni monolitici dove la strada verso l’altopiano passa attraverso le isole di salvezza di spit, magari non sempre millimetrici. E’ una scalata luminosa, fatta di gaz, tecnica e invidia per i maledetti cuginastri francesi e i loro chilometri di roccia perfetta.

Eh, il “fra”, invece non è mai una bella cosa (“fra gnac e petac” si dice in Brianza, come dire fra la padella e la brace…).
Quando poi il “fra” si associa alle chiappe, lo san tutti dove si va a finire…

Proprio lì ci siamo cacciati noi: fra le chiappe del Verdon. Lungo uno dei tanti sistemi di fessure offwidth di cui (bestia digiuna di storia dell’alpinismo che non sono altro!) ignoravo persino l’esistenza. Eppure ci sono, eccome, e proprio su quelli (meglio: dentro quelli) si infilarono negli Anni ’70 i pionieri dell’esplorazione alpinistica delle Gorges.

Altra mia ignoranza è ora rischiarata dalla luce della conoscenza e dell’esperienza: i francesi per definire le fessure fuori misura usano un termine meravigliosamente onomatopeico, certo molto più efficace dello scialbo anglosassone “offwidth”. Loro dicono RENFOUGNE, e quando vedete scritto così sulla topo state certi che… son volatili per diabetici!

Oggi qualcuna di queste “renfougnate” è stata un po’ addomesticata dagli spit. Altre sono rimaste più o meno nelle condizioni di apertura e la vera differenza fra gli Anni ’70 e oggi non sono le scarpette, la magnesite o l’allenamento al trave (tutte queste cose lungo le renfouge del Verdon mi sa che sono utili come un paio di scarponi da sci in mezzo all’Oceano Pacifico). Quello che consente a un nipotone come me di salire le vie aperte dai fuoriclasse di allora, senza votarsi al suicidio è semplicemente il fatto di avere a disposizione un ben nutrito range di testoni a camme, da piazzare al posto dei loro improbabili cunei, della loro classe e delle loro bestemmie.

Per farla breve il boccone con cui ci siamo strozzati la gola sono i sei tiri de “L’Estamporanée”, tutti in fessura rigorosamente no spit (a parte qualche rinforzo alle soste), con un paio di lunghezze di pura renfougne.

Ecco un paio di istantanee della salita:

Prima renfougne - 6c:
Elvio (in sosta): “Vai Sera che la stai scalando proprio bene!”
Sera (una decina di metri sopra la sosta): “Blocca che mi viene da vomitare!”

Seconda renfougne - 6b+:
Sera (in sosta): “Bravo Elvio l’hai scalata proprio bene!”
Elvio (alla sosta sopra): “Mi viene da vomitare!”

Ovviamente dopo questa tragicomica esperienza abbiamo già deciso quale sarà il nostro primo obiettivo per l’autunno verdoniano: la via si chiama ORNI, ovvero Object Renfougnant Non Identifié.

Stay Tuned…