Ho letto in questi giorni la notizia del gruppo di escursionisti "dispersi" e recuperati dal Soccorso alpino sul sentiero natura ai Piani d'Erna, sopra Lecco e ho visto le reazioni indignate con cui molti appassionati di montagna hanno commentato la notizia.
Non so voi, cari amici escursionisti e alpinisti, ma io ho iniziato così: perdendomi ai Piani d'Erna (più o meno).
Non sono nato imparato e la mia esperienza in montagna l'ho maturata (e continuo a maturarla) anche in questo modo: facendo errori, fortunatamente sempre assistito dalla buona stella.
Faccio i miei corsi, cerco di rubare il "mestiere" a chi ne sa più di me, ma poi arriva sempre il momento in cui chiudo il libretto delle istruzioni e mi metto in gioco. E ogni volta commetto errori.
Imparo più da quegli errori che da tutti i corsi e i buoni consigli. Oggi sul Sentiero natura dei Piani d'Erna non mi perderei più. Forse...
Spero che ai ciabattari come quelli che si sono persi ai Piani d'Erna (e come me) gli uomini del Soccorso alpino facciano una lavata di testa di quelle che ti ricordi per tutta la vitta. Di quelle che ti vergogni come una biscia, ma poi impari.
Le multe invocate da tanti, i divieti, i patentini e l'accompagnamento obbligatorio da parte degli esperti qualificati sono sciocchezze inutili e dannose che mi fanno venire l'orticaria al solo pensiero.
Certo, rispetto a qualche decennio fa, con tutte le fonti di informazione e le occasioni di formazione che ci sono oggi, bisogna essere proprio un po' tordi per commettere certi errori.
Però vorrei soffermarmi un attimo a guardare quello che è accaduto: un gruppo di escursionisti si è perso sul sentiero e ha sforato i tempi previsti per l'escursione, restando in giro fino all'arrivo del buio.
Alzi la mano chi non si è mai trovato in questa situazione.
Chiedo ancora: quando vi è capitato, cosa avete fatto?
Io, come tantissimi altri, me la sono smazzata da solo. Non è una cosa che dipende dall'essere più bravi, più spericolati o più coraggiosi: è una questione di vecchiaia.
Chi ha cominciato a ravanare in giro per le montagne prima dei cellulari e di internet se sbagliava sentiero non aveva altra opzione che ritrovarlo da solo, facendo tutta la fatica in più e perdendo tutto il tempo che serviva per tornare sulla retta via.
Mentre si grattava da solo questa rogna imparava anche che la rogna è una cosa brutta e fastidiosa, molto pericolosa pure, ma non necessariamente mortale.
Oggi abbiamo a disposizione una mole enorme di dettagliate informazioni, non solo prima dell'escursione, ma anche durante. Abbiamo la possibilità di restare in qualche modo sempre connessi con il mondo, disponiamo quasi sempre di una qualche "corda di sicurezza" alla quale aggrapparci per venire fuori da eventuali guai. Tutte cose molto utili, delle quali, personalmente, trovo assolutamente opportuno approfittare.
Tutto questo ci costruisce attorno un guscio di certezze e di sicurezze impensabile fino a qualche decennio fa. Oggi abbiamo la possibilità di andare là fuori pur rimanendo sempre all'interno di una sorta di zona comfort.
Sappiamo tutto (o quasi): siamo istruiti, preparati, formati, informati e connessi. Ma, di cosa possa accadere quando il guscio si incrina, siamo forse molto meno consapevoli di quanto lo eravamo un tempo.
Per chi è abituato a stare all'interno del confortevole e ben conosciuto guscio dell'informazione e della competenza l'ignoto e l'imprevisto assumono sempre e comunque fattezze mostruose. L'errore, qualsiasi errore, viene percepito come potenzialmente letale e irreparabile.
Da vecchio ciabattaro quale sono non mi stupisco del fatto che i ciabattari come me si caccino ogni tanto nei guai e che affrontino la montagna "senza le adeguate attrezzature e conoscenze".
Me li ricordo ancora i passaggini del Canalone Porta saliti con i jeans stretti da metallaro che facevano tanto figo negli Anni 80, oppure la Segnantini sotto al temporale con addosso solo il maglione di lana fatto a maglia dalla mamma e sopra il Chivei di carta velina...
Quello che mi colpisce (e non mi riferisco ai soccorsi sul Sentiero natura, della cui vicenda so troppo poco per esprimere un giudizio) è il fatto che tante richieste di intervento del Soccorso riguardino imprevisti ed errori che sono sì fastidiosi, ma non espongono ad un immediato pericolo grave o letale.
I jeans da metallaro ti impediscono i movimenti, ma, una volta che dallo sforzo si sono strappati sul sedere, puoi di nuovo salire con una certa agilità e alla gita successiva ci pensi due volte prima di usarli.
Il Chiuei di carta velina sotto al temporale è facile che ti si sciolga addosso, ma d'estate in Grigna, una volta che sopravvivi ai fulmini, poi torna il sole e ti asciughi, oppure ti tiri fuori rapidamente dalle rogne e in un paio d'ore sei di nuovo giù ai Resinelli.
Se stai camminando su un sentiero e ti accorgi di non avere preso la borraccia patisci una sete bestia, ma difficilmente ti troveranno lì mummificato come Tutankhamon.
Se ti capita di bivaccare a luglio senza attrezzatura su un itinerario di media montagna, batti i denti tutta notte, ma non devi per forza morire di ipotermia.
Non credo sia una questione di "indegnità morale". Non mi pare plausibile che in giro ci siano persone che vanno in montagna pensando: "Vado su alla cavolo, poi se mi trovo a disagio mi faccio venire a prendere dal Soccorso". Sono convinto che chi richiede l'intervento lo faccia sempre ritenendo di essere in una situazione di grave emergenza, nella quale pensa di non avere altre vie d'uscita e che la propria vita sia in reale pericolo.
Andare in montagna, andare là fuori, è da sempre un gioco d'equilibrio fra la sicurezza - data dalle conoscenze, dall'esperienza e dal supporto tecnologico - e l'esposizione all'ignoto e al pericolo. Minore è la possibilità di portare con sé là fuori questo guscio di sicurezza, maggiori sono le possibilità, la disponibilità e la confidenza nel confrontarsi con l'ignoto e nel correre dei rischi.
I ciabattari (e anche i grandi alpinisti) che hanno fatto il loro apprendistato fra le montagne ai tempi in cui si andava alla sperandio, hanno avuto la scabrosa opportunità di questa esposizione sin dall'inizio della loro frequentazione dell'ambiente outdoor. Non c'erano per loro altre possibilità: l'unico modo per imparare a nuotare e era buttarsi nell'acqua alta.
Oggi che il nostro guscio di competenze, informazioni e attrezzature è così smart e mobile che (per fortuna!) ce lo possiamo portare appresso ovunque, anche nelle situazioni e nei luoghi più selvaggi, quella che rischia di essere carente è proprio l'esperienza dell'acqua alta, quella che ti consente di sperimentare la differenza fra le situazioni in cui c'è forse solo da ridere ("Annego, annego!" - "Ma metti giù i piedi, pirla!") e quelle davvero serie.
Oggi sarebbe da idioti pretendere di ignorare tutto il nostro apparato tecnologico e conoscitivo, invocando il ritorno ad una supposta età dell'oro dello "sperandio", ma forse il vero percorso di crescita su cui dovremmo lavorare per sviluppare una frequentazione più consapevole dell'ambiente outdoor (e non solo), non passa dalla sola acquisizione di nozioni e competenze e dall'adozione di attrezzature adeguate, ma anche dallo sviluppo di in una nuova "pedagogia del rischio".
Quando si rotola in giro per il mondo ben protetti all'interno del proprio uovo-zona comfort è importante capire cosa ci si può aspettare nel momento in cui il guscio si incrina, soprattutto per quei Calimeri che sentono il bisogno di spingersi là fuori, dove ogni tanto può capitare di fare la frittata.